martedì 14 settembre 2010

Pescatori di uomini: i pericolosi salvataggi di migranti raccontati dai loro protagonisti

Salgono all'onore delle cronache soprattutto quando vi sono scontri, con le motovedette libiche per i controllo dei confini marittimi. Ma molti tra i pescatori siciliani di Mazara del Vallo - tra cui l'equipaggio del peschereccio Ariete guidato da Gaspare Marrone, su cui ieri si sono abbattuti i colpi di una motovedetta libica - hanno ricevuto il premio "Per Mare" dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), per aver salvato centinaia di migranti in pericolo, nella traversata del Mediterraneo. Nelle pericolose operazioni di recupero dei naufraghi, questi pescatori hanno spesso sostituiscono la guardia costiera italiana. Senza alcun rimborso pubblico, ma solo per rispettare la legge del mare, che impone l'aiuto a chi è in difficoltà. Ecco i loro racconti in prima persona, che ho raccolto per la rivista Carta.



I PESCATORI- EROI DI MAZARA DEL VALLO
“Dopo averli presi a bordo tutti, ho prestato il cellulare ad alcune ragazze perché avvertissero le famiglie che stavano bene. Erano persone educate, istruite, si vedeva che non fuggivano per fame, ma per cercare la libertà. Solo un po' di libertà!” A parlare è Salvatore Cancemi, capitano del motopeschereccio Twenty Two della flotta di Mazara del Vallo, premiato dall'Alto commissariato Onu per i Rifugiati (Unchr) per aver compiuto la più eroica operazione di salvataggio di migranti nel canale di Sicilia nel 2008. Il premio “per mare” dell’agenzia dell’Onu, prevede una somma in denaro (10.000 euro per l’intero equipaggio) per ripagare l’impegno umano, ma anche economico, che offrono i pescatori che si prestano ai salvataggi. Oltre ai pescherecci che incontrano carrette in mare, numerosissimi sono infatti i casi in cui le motovedette della guardia costiera chiedono ai pescherecci di intervenire nei salvataggi di migranti, date le loro imbarcazioni più spaziose e adatte ai trasbordi. Senza rimborsarli dei rischi corsi, ne delle perdite economiche. “Interveniamo nei salvataggi semplicemente perché questa è la legge del mare”, dicono tutti gli intervistati. Ma il rischio di perdere entrate vitali, in un periodo di forte crisi della pesca, può spingere altri a guardare dall’altra parte. Soprattutto nell’era dei respingimenti forzati.



Salvarne 300 in una notte buia e tempestosa
Cancemi e il suo equipaggio hanno cambiato il destino di 299 persone il 27 novembre scorso, quando in piena notte sono stati chiamati dalla capitaneria di porto di Lampedusa: un barcone con centinaia di migranti era in difficoltà. Con il buio, il mare forza 8 e gli scafisti che, temendo di essere arrestati, imponevano le luci spente, c’erano tutte le caratteristiche di un'enorme tragedia in mare. C'è voluta qualche ora e l'esperienza del capitano Cancemi, per individuare nel mare in tempesta l'imbarcazione, raggiungerla e avvicinarla alla costa. “Quando le onde portavano la nostra barca giù e la loro su, saltavano a 20-30 insieme, come pirati! E i nostri ad acchiapparli come tonni. Sempre pescatori siamo..”, racconta Cancemi animandosi al ricordo e mimando le azioni. “Alla fine, quando ho visto che nessuno si era perduto o fatto male, l'emozione è stata enorme e la tensione è scoppiata in un grande pianto liberatorio”. Nell'equipaggio si scherzava anche, per tenere alto il morale, come racconta Francesco Cancemi, il capo macchine del peschereccio: “Cercavo di distrarli, soprattutto le ragazze, che erano ancora spaventatissime! Gli abbiamo dato da bere, da mangiare, vestiti e biancheria arrivati al porto di Lampedusa, c'era una folla ad aspettarci: ci hanno accolto con un lunghissimo applauso”.



L’obbligo di rimandarli indietro
Non sempre i salvataggi in mare si concludono con gioia: “Una storia che non abbiamo mai raccontato – dice Cancemi – è quella di un'imbarcazione di tunisini, incontrata al confine tra le acque territoriali della Libia e quelle della Tunisia. Erano una ventina e imbarcavano acqua. Prima di soccorrerli – ricorda il capitano - abbiamo avvertito le autorità marittime”. L’autorizzazione è infatti essenziale per effettuare un salvataggio il mare, altrimenti i pescatori possono essere accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, rischiando fino a 24 anni di carcere, oltre alla perdita di un'attività economica vitale per l’intero equipaggio. “Ci è stato detto di prenderli a bordo ma di riconsegnarli ad una motovedetta tunisina che sarebbe venuta a prenderli: quando hanno saputo di dover tornare in Tunisia, quei ragazzi si sono rattristati molto. E anche noi – spiega Cancemi - perché sapevamo che li avrebbero picchiati e messi in carcere per mesi. Ma al momento di salutarci ci hanno ringraziato molto: per avergli salvato la vita”.

Un fagottino dal mare in tempesta
Ci sono due immagini che resteranno sempre impresse nella mente di Pietro Russo, capitano del motopesca “Ghibli”. La prima è quella di un fagottino che gli venne dato mentre fuori dalla barca infuriava una tempesta: “L'ho aperto e mi sono trovato di fronte bambino, piccolissimo – racconta, mentre il viso gli si illumina – mi ha sorriso e ho dimenticato tutto il resto. Aveva tanta voglia di giocare, dopo tutto quel buio e quello stare fermo, in quella barchetta tutti ammassati”. Quella sera, il Ghibli con i pescherecci Monastir e Ariete erano stati chiamati dalla capitaneria di porto di Lampedusa per soccorrere un barcone in balia delle acque agitate al largo dell’isola. “Ci siamo trovati davanti ad una scena agghiacciante: ragazzi di 15 - 16 anni erano in una barchetta piena in modo incredibile di persone, ad occhio 300-350, che piangevano e urlavano – racconta Russo - bisognava agire in fretta perché imbarcavano acqua. Con l'aiuto del Monastir e dell’Ariete, li abbiamo protetti dal vento per caricarli. Un'operazione rischiosissima. E' in tutta quella confusione, il primo ad arrivare a bordo, è stato quel fagotto”.

Vedere la morte tra le onde
L'altra immagine che Russo non scorderà mai risale al 2006. Tornando da una battuta di pesca aveva incontrato un'imbarcazione di migranti che chiedeva aiuto. La barca di Russo si era avvicinata, ma nella foga di salire a bordo, o forse spaventati da alcuni delfini che saltellavano dietro al peschereccio, i naufraghi si erano spostati tutti su un lato e la barchetta si era capovolta. “Ci siamo trovati a dover salvare una ventina di persone che non sapevano nuotare: era questione di attimi. I primi ad avvicinarsi sono stati una coppia: abbiamo acchiappato il marito ma lei non ce l'abbiamo fatta e si è abbandonata. Poi, abbiamo saputo che aveva con sé un bambino di pochi mesi che le era sfuggito nel rovesciarsi della nave. L'ho vista affondare con i lunghi capelli neri che si allargavano nell'acqua. Non abbiamo potuto buttarci per salvarla perché c'erano altre 20 persone in mare. Alla fine ne abbiamo portati a riva 21, su 23 – dice il capitano, ancora addolorato – ma per lei e il bambino non c'è stato niente da fare”.


Un uomo solo su un pezzo di legno
Vito Cittadino, capitano dell'Ofelia I, stava sul ponte del suo peschereccio all'alba di un giorno d'inverno del 2007, quando vide all'orizzonte qualcosa che, all'inizio, gli parve una boa: “Ho preso il binocolo e ho visto un braccio che si alzava – dice Cittadino mimando la sorpresa del momento - sono avanzato quei 400 metri cercando di non perderlo di vista. Era un uomo solo su un pezzo di legno, il pavimento di un gommone. Gli ho lanciato un salvagente e poi mi sono proteso per afferrarlo. Cittadino ricorda la paura che gli morisse tra le braccia: “L'ho portato a bordo e gli ho fatto una doccia calda poiché tremava. Dopo 18 ore in mare, aggrappato al pavimento di un gommone, la sua pelle nera era diventata bianca. Aveva perso i sensi, non mangiava, non beveva quasi. Si è ripreso dopo aver dormito 24 ore. Ci ha raccontato che erano partiti da Tripoli in 47: mauritani e molti iracheni, tutti giovanissimi, più lui che già aveva solo 24 anni. Erano morti tutti”.

Foto: L. J.

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