venerdì 21 agosto 2009

LO SCHINDLER DI BUENOS AIRES

Giovane console nell'Argentina dei militari, salvò oltre 300 perseguitati politici del regime. Nonostante l'opposizione del governo italiano di allora, che non voleva compromettere gli interessi economici nel paese. Oggi, Enrico Calamai denuncia il ripetersi di una situazione simile nei recenti accordi tra Italia e Libia.

pubblicato anche sulla rivista VPS (Volontari Per lo Sviluppo): www.volontariperlosviluppo.it

Un dramma troppo grande. Violenze troppo estreme per portarle con sé nella vita, a trent'anni. Quindi rimosse, fino a quando, dopo tre decenni, un processo chiama a testimoniare. E allora le memorie conservate in un angolo della coscienza tornano reali, vengono riprese, analizzate e infine magistralmente raccontate in un libro. Per denunciare il male, ma soprattutto l’omertà di chi preferì non opporvisi. E’ la storia di Enrico Calamai, detto lo Schindler o il Giorgio Perlasca argentino, perché come console a Buenos Aires tra il 1976 e il 1978 aiutò a fuggire oltre 300 perseguitati politici del regime militare argentino. Nonostante l’opposizione dell’amministrazione italiana da cui dipendeva, impegnata a non incrinare i rapporti con il governo del generale Videla. Le vicende di Calamai sono riemerse nel 2000, quando divenne testimone nei procedimenti penali aperti a Roma contro i militari responsabili della morte degli italo-argentini durante il regime. “Tutti allora ricordavano avvenimenti che io avevo cominciato a considerare pazzie personali”, dice di quel periodo."Avevo vissuto da vicino, anche se non sulla mia pelle, fatti di una tale violenza da essere insostenibili”, spiega l'ex diplomatico che nel romanzo autobiografico “Niente asilo politico-diplomazia, diritti umani e desaparecidos” edito da Feltrinelli, ricorda come "ancora più delle atrocità commesse dai militari argentini", lo torturasse "l'indifferenza e la complicità dell'amministrazione dello Stato democratico italiano che mi trovavo a dover rappresentare".

Con i perseguitati politici
Ai tempi del regime argentino, Calamai lavorava a Buenos Aires nel consolato italiano, che non gode di extra-territorialità al contrario dell'ambasciata. Questa però rifiutava ogni aiuto ai perseguitati politici, in accordo con le volontà della Farnesina volte a evitare ogni scontro con le autorità locali. Tuttavia dall'ambasciata stessa, cominciò a trapelare la voce che al consolato c’era un giovane disposto ad aiutare i perseguitati del regime. Così, in molti cominciarono a rivolgersi a lui. Calamai li aiutava preparando loro i documenti per l'espatrio e organizzando la fuoriuscita dal paese in condizioni di sicurezza. Spesso accompagnandoli all'aeroporto. In alcuni casi ospitandoli nella propria abitazione e rischiando personalmente la vita. “Se lo avessero trovato insieme a noi avrebbe fatto la nostra stessa fine”, ha raccontato alla Rai Claudio Camarda, aiutato dal diplomatico quando era un giovane vivaista di Buenos Aires. Mentre l'avvocato Vanda Fragale ha affermato: “A me è stata data la vita due volte: la prima, me l’ha donata mia madre, la seconda, Enrico Calamai”.

Il valore della testimonianza
Oggi, quei procedimenti giuridici hanno portato alla condanna di diversi torturatori e assassini del regime di Videla. Nel febbraio scorso, la Corte di Cassazione italiana ha confermato la condanna all’ergastolo dell’ufficiale Alfredo Astiz, come colpevole dell’uccisione di tre italo-argentini durante la dittatura. Probabilmente l’Argentina non concederà l’estradizione di Astiz, oggi indagato anche in patria, tuttavia Calamai sottolinea il valore dei processi agli ex militari argentini, tenuti in Italia, ma anche in Spagna, Francia e Germania: “Mostrano che la magistratura argentina non è sola a giudicare e condannare persone che si sono rese colpevoli di crimini contro l'umanità. Fino al 2003, quando il presidente Nestor Kirchener ha abolito le cosiddette "leggi della vergogna" che garantivano l'amnistia agli ex militari del regime, i processi in Europa erano l’unico modo con cui i parenti delle vittime potevano ottenere giustizia. Successivamente, i processi europei sono diventati sussidiari. Ma ancora fondamentali nel sostenere la giustizia di un paese che, dopo trent’anni, affronta con enormi difficoltà le ferite del passato”.

Le “madres” e i nuovi desaparecidos
Attraverso le “madres de plaza de Mayo” e le associazioni argentine con cui continua ad essere in contatto, Calamai conosce le difficoltà che ancora si incontrano in Argentina, nei processi ai crimini della dittatura: “La situazione è difficile e pericolosa perché vi sono molti magistrati che furono nominati proprio dai militari che oggi si trovano a dover processare. Di qui complicità, omissioni e lungaggini burocratiche. Ma anche minacce all’incolumità fisica dei testimoni, dei loro avvocati e degli stessi giudici intenzionati a far andare avanti i procedimenti”. Minacce che si sono concretizzate, come nel caso del testimone–desaparecido Julio Lopez, scomparso nel 2006, il giorno della condanna di un militare al cui processo aveva testimoniato. Non fu mai ritrovato. Poi vi sono stati altri sequestri del genere, anche se poi sono stati rilasciati. “Una delle storie più inquietanti – racconta Calamai - è quella di un testimone, che subito dopo aver incontrato il proprio avvocato ha ricevuto una telefonata anonima in cui gli è stata fatta riascoltare la registrazione dell'intera conversazione avuta poco prima con il legale”. Una minaccia chiara. “Nonostante ciò –dice l’ex diplomatico- sono tutti decisi ad andare avanti”.

Prevenire i crimini di Stato
“Il principale limite di questi processi è che puntano il dito contro i militari argentini, ma non contro le complicità italiane che hanno reso possibili i crimini, lasciando in ombra il ruolo svolto dalla classe politica e dal sistema industriale dell’Italia”, dice l’ex diplomatico. “Il fatto ci sia l’avvocatura dello Stato come parte in causa, nega qualunque possibilità di autocritica da parte delle istituzioni italiane – insiste Camai – mentre solo arrivando a fare chiarezza sulle proprie responsabilità, si possono prevenire futuri comportamenti di collaborazione con autorità che si macchiano di crimini di lesa umanità”. Quindi parla del presente: “Così come trent’anni fa si chiudevano gli occhi di fronte alle atrocità commesse dai militari in Argentina perché si dava la priorità a mantenere i buoni rapporti diplomatici al fine di tutelare gli interessi economici delle nostre imprese, così oggi si chiudono gli occhi di fronte alle sistematiche crudeltà compiute nei confronti degli immigrati. In particolare di fronte a ciò che accade nei luoghi di detenzione per migranti in Libia, perché, per motivi politici, si preferisce che queste persone non arrivino in Italia”. E denuncia: “Oggi si va anche oltre: si arriva a finanziare, strutture in cui si compiono documentate violazioni dei diritti umani. Si fa in modo che non si veda, mentre nel silenzio si porta avanti una politica che, con cinismo e spregiudicatezza, viola sistematicamente i diritti dell'uomo”.

1 commento:

  1. Rai Storia gli ha dedicato un approfondimento questa sera.
    Non conoscevo la vicenda nello specifico. La memoria viene affidata alla testimonianza delle persone che sono state salvate.
    Le parole di Vanda Fragale sono di una bellezza struggente.

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